Non c’è da stupirsi se nelle nostre dorate colline delle Langhe si sia consumato l’ennesimo sfruttamento della forza lavoro, al limite della schiavitù, con atti di violenza che sono arrivati a disumane frustate con un tondino di ferro, quelli che servono per tendere i fili delle vigne. Una pratica forse accaduta all’insaputa dei proprietari dei terreni agricoli, preoccupati di garantire l’eccellenza del “made in Italy’”, il vino sulle nostre tavole, prodotto e venduto a caro prezzo di chi raccoglie. Occorre invece buon cibo, buon lavoro, buoni produttori agricoli.
Il caporalato è un’intermediazione ‘malata’, è reato e non è un fenomeno nuovo, né tantomeno riguarda solo il sud. Un crimine da tempo denunciato dalla Flai Cgil ma anche da don Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele e di Libera. Le attività giudiziarie e ispettive, effettuate presso le aziende vitivinicole, hanno rilevato mediamente irregolarità nel 60 per cento dei rapporti di lavoro. Il lavoro nero cresce di anno in anno, all’aumentare dei controlli, con la sola eccezione del periodo della pandemia.
La terra coltivata a vite della provincia di Cuneo ammonta a 15.000/16.000 ettari su una superficie complessiva in Piemonte di poco meno di 50.000 ettari, con un aumento negli ultimi dieci anni di circa il 10/12 per cento. Si realizza la nota legge di mercato, per cui aumenta la produzione di vino e di conseguenza cresce la domanda di manodopera, ma allo stesso tempo le aziende agricole cercano di abbattere i costi di tale produzione, appaltando i lavori in vigna, per il diradamento e la raccolta uve, a cooperative e imprese individuali “spurie” chiamate anche “senza terra”, sgravandosi della ricerca di forza lavoro. Nel periodo di vendemmia nelle Langhe e nel Roero le persone impiegate sono stimate da 4.500 a 5.000, di cui circa il 55/60 per cento viene intermediato da coop e imprese individuali. Qui si annida il rischio di caporalato e sfruttamento. Lavoratori in nero e in “grigio”, spesso ricattabili per difficoltà legate a titoli di soggiorno temporanei, in attesa di rinnovo o addirittura privi di permesso di soggiorno. Lavoratori stranieri “invisibili”, di origine subsahariana, pakistani, bengalesi, indiani e un buon numero di lavoratori dell’est, macedoni e bulgari, perché hanno maggiori competenze professionali nella cura della vite.
L’Ispettorato di Cuneo, nel 2023, ha dichiarato che ci sono state 140 ispezioni in aziende del vino cuneesi, riscontrando irregolarità in 6 rapporti di lavoro su 10. Dall’anno precedente il lavoro nero è cresciuto del 115 per cento. Per di più, tali irregolarità crescono proporzionalmente con l’aumentare dei controlli.
Secondo i dati dell’Inail e dell’Ispettorato nazionale del lavoro, nel 2019 circa l’85 per cento delle imprese ispezionate hanno fatto registrare infortuni e gran parte degli episodi gravi o mortali si verificano in aziende con meno di 15 dipendenti o che hanno affidato in appalto l’esecuzione di importanti settori del ciclo produttivo.
I lavoratori immigrati sono discriminati su diversi fronti. A loro sono assegnate le mansioni più faticose, rischiose e meno pagate, che necessitano di minori qualifiche. Secondo la Coldiretti, su una media di 13mila stagionali, 11mila sono stranieri; il 2020 è stato però un anno eccezionale per le restrizioni causate dalla pandemia, che ha abbassato del 65 per cento il numero dei lavoratori provenienti dai Paesi extraeuropei (dati Istat).
Emerge, dati alla mano, una vasta area di illegalità, nella quale si generano fenomeni criminali. Le coop e le imprese individuali hanno spesso titolari stranieri dell’est, intorno ai quali cresce la nociva rete di connivenza e di assistenza contabile, amministrativa e legale composta da professionisti e imprenditori italiani che guadagnano sulla pelle di lavoratori mal pagati, con diritti negati e spesso soggetti a violenza psichica e fisica. Questo circuito è funzionale a una produzione intensa e a basso costo, che sfrutta il lavoro di migliaia di persone ai margini della società, di stranieri clandestini o irregolari, ridotti al limite della schiavitù. Un “olocausto” che si consuma quotidianamente, alla luce del sole e in qualsiasi condizione meteo anche estrema, nelle stagioni di raccolta, stoccaggio e trasformazione del prodotto.
La relazione pubblicata il 21 aprile 2022 dalla presidenza della Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati, dichiara: «Lo sfruttamento e il caporalato sono presenti ovunque e questo non è degno di un Paese civile».
La citata relazione evidenzia, con dati e indagini, l’umiliazione dei facchini, la violenza sessuale sulle braccianti, le minacce agli autisti della logistica, l’esercito di lavoratori costretti a eseguire ritmi massacranti, e denuncia l’aumento esponenziale delle morti e degli incidenti gravi sui luoghi di lavoro. Una tragedia che si consuma non solo nell’agricoltura ma anche nella logistica e nell’edilizia che interessa l’intero Paese.
A questo punto, occorre rinfrescare la memoria, spesso dolosamente messa da parte con il tempo, per ricordare la prima sentenza storica in Italia, anche se non definitiva, emessa dal Tribunale di Cuneo l’11 aprile 2022 per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro che ha inflitto a Moumouni Tassembedo, detto Momo, 34enne originario di Ouagadougou (Burkina Faso), una pena a cinque anni di reclusione (la pena prevista è fino ai sei anni) e 14.700 euro di multa per aver reclutato, nell’area del saluzzese, molti lavoratori di origine africana. Ricordiamo le prime pesanti condanne, con pena simile, anche ai vertici di un’azienda agricola di Lagnasco, cinque anni e 14mila euro di multa; tre anni e 8.400 euro di multa per i titolari di un’azienda di polli di Barge, da qui il colorito titolo degli organi di stampa “la banda dei pennuti”. L’appello, più volte rinviato, dovrebbe tenersi a settembre.
«Eppure abbiamo dal 2016 una buona legge sul caporalato, che però deve essere messa in condizione di funzionare» affermava don Ciotti, due anni dopo la promulgazione. Il caporalato, come analizzato, è un affare di padroni e di padrini, di velocizzazione della produzione a bassi costi, di sfruttamento dei deboli e di marginalità.
«Questo sistema sembra aver dimenticato che il lavoro è la base della dignità della persona, e che questa dignità si garantisce con i diritti, con la sicurezza, con la giusta retribuzione. Altrimenti abbiamo lo sfruttamento se non la schiavitù» fu la riflessione, il 7 agosto 2018, del presidente di Libera a seguito degli incidenti in cui persero la vita, in due giorni, sedici braccianti agricoli in Puglia.
Nella relazione della citata Commissione si auspicava la messa a pieno regime dell’anagrafe unica nazionale dei contratti collettivi presso il CNEL, che prevede il controllo incrociato dei dati Inps e Ministero del lavoro ma, a quanto pare, non funziona se ancora oggi le campagne sono piene di lavoratori occasionali e senza contratto, mentre l’ispettorato del lavoro continua a non avere mezzi, risorse umane ed economiche.
Durante la pandemia è stato lanciato un appello ai Ministri Bellanova, Lamorgese, Speranza, Catalfo e Provenzano, da parte di centinaia di associazioni, guidate da Flai-Cgil e Terra!, e personalità, tra le quali don Luigi Ciotti, allo scopo di agire subito per tutelare la salute e i diritti dei tanti braccianti, esposti a sfruttamento e caporalato, invitando le istituzioni a consentire la regolarizzazione del loro status giuridico, dal momento che garantiscono il nostro cibo in tavola tutti i giorni. L’appello è caduto a vuoto.
Serve una revisione della legge Bossi Fini per togliere i lavoratori agricoli stranieri dal ricatto del rilascio o di continui rinnovi del permesso di soggiorno. Sarebbe il caso che i lavoratori stranieri stagionali addetti all’agricoltura, indispensabili perché ormai la manodopera autoctona disponibile al duro lavoro nei campi è insufficiente, creare una banca dati nazionale dei braccianti agricoli che possa essere utilizzata dai centri dell’impiego territoriali per creare liste di disponibilità da proporre alle aziende agricole lecitamente, predisporre un’accoglienza alloggiativa per i lavoratori stagionali, come già attuato con risultati positivi nel saluzzese, e una rete logistica legale per raggiungere i campi.
I produttori dell’oro rosso hanno le risorse necessarie per pagare adeguatamente e nel rispetto dei contratti collettivi i lavoratori e per sostenere un progetto di accoglienza decoroso, in condivisione con le istituzioni locali, nel rispetto della dignità delle persone che attraverso il loro lavoro contribuiscono alla ricchezza di un territorio dichiarato patrimonio UNESCO.
Quest’anno, per la prima volta si è riusciti a sottoscrivere un protocollo prefettizio che coinvolge più soggetti istituzionali (a partire dai comuni della zona), associazioni datoriali, sindacali, soggetti del terzo settore.
I recenti fatti di cronaca hanno spinto il vescovo di Alba, Marco Brunetti, testimone diretto dell’abbandono di un bracciante straniero infortunato presso il centro di accoglienza Caritas, a ricordare a tutta la comunità diocesana il dettato del Vangelo, dichiarando: «non è soltanto un reato, ma anche un grave peccato che esclude dalla comunione eucaristica».
«Di fronte a quelle morti bisogna stare in silenzio, ma poi occorre chiedersi in che genere di mondo vogliamo vivere. La responsabilità sociale di ognuno di noi incide sullo sviluppo di un’economia inclusiva e sostenibile, di un’occupazione regolare con un lavoro dignitoso per tutti i lavoratori e, infine, di una cultura della legalità», conclude don Ciotti, il presidente di Libera.